mercoledì 28 ottobre 2009

THE AUSTRALIAN HEART

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Dopo il duro lavoro in farm a Mildura, tornai a Melbourne dove ad aspettarmi c’era la mia unica certezza, mia sorella. Insieme prenotammo un tour per il cuore australiano, il Red Centre. Fortunatamente durante il tour scrissi le mie trepidazioni, che riporto di seguito con immenso piacere.


24_04_2009
AGORICHINA: un posto dimenticato in mezzo al nulla dove l'acqua calda è disponibile fino alle 7 pm e la luce è sveglia fino alle 11 pm... Ecco dove ho dormito stanotte.
Siamo partiti ieri mattina con un tour organizzato: destinazione "Red Centre". Un gruppo di dieci ragazzi con una passione in comune: la curiosità di esplorare nuovi orizzonti. Il nostro driver, nonchè guida, si dimostra simpatico, ben organizzato e conoscitore di tutto ciò che lo circonda; si chiama Trevor ed è un “original aussi”... capire la sua lingua è ancora un po' difficile, ma con me viaggia anche il mio traduttore simultaneo: my sister! Non può esserci compagnia migliore quando sono con lei... Certo, se gli altri ragazzi fossero un po' più pieni di vita sarebbe meglio, ma in ogni caso sarà sicuramente una settimana memorabile!
Trascorriamo il primo giorno quasi interamente viaggiando, credo che 600-700 kilometri siano trascorsi sotto i nostri piedi, o meglio, sotto le quattro ruote del nostro bus. Un paesaggio che mozza il fiato: il nulla più totale costeggiato dalle Flinders Ranges, una catena "montuosa" (o forse "collinosa") che si espande nel deserto per 400 kilometri. E' incredibile come il paesaggio cambi in continuazione: terra rossa bruciata dal sole, improvvisamente migliaia di alberi sempreverdi e un attimo dopo il vero bush australiano. Si incontra una macchina ogni mezz'ora lungo questa strada infinita che sembra tagliare esattamente a metà il deserto.
Canguri, pecore, mucche, emu e aquile sono la pennellata finale nel quadro dipinto dal pittore perfetto per eccellenza, la natura.
Ci fermiamo per una breve camminata che ci porta a visitare un sito aborigeno con una vista spettacolare sul deserto più infinito che la mia mente poteva immaginare finora. Trevor ci racconta alcuni spezzati della cultura aborigena: regole severissime che, se violate, possono portare alla morte, riti di iniziazione che fanno venire i brividi; esseri umani come noi, con una vita come la nostra, ma che sono vincolati nelle loro scelte da una cultura che si tramanda da millenni, regole che non hanno stabilito loro ma che devono rigorosamente osservare per poter continuare a vivere. Semplicemente inconcepibile per le nostre menti.
Lunch time in un paesino di poche case, alcuni negozi di prima necessità, una pompa di benzina e un ospedale: è semplicemente surreale come possa esistere vita dopo centinaia di kilometri in mezzo al nulla!
Altre tre ore di strada sterrata e arriviamo ad Angorichina, dove ci fermiamo per la notte. Un ottimo BBQ per conciliare il sonno: domani ci aspetteranno altri 700 kilometri di avventura!

25_04_2009
Guardo fuori dal finestrino: terra bruciata dal sole, pochi arbusti che sopravvivono nonostante il clima torrido e un cielo infinitamente immenso. Un paesaggio praticamente sempre uguale ma che non mi stanco mai di guardare. Il secondo giorno trascorre quasi interamente in questo modo, percorrendo una strada sterrata che ci sta portando nel cuore di questa magnifica terra chiamata Australia.
Una breve sosta “in the middle of nowhere” dove vive un estroso figlio dell’outback. Lunga barba bianca, più di 60 anni di avventura alle spalle, un cane fidato come unico amico e una vita dedicata alle sue sculture in gesso e allo studio del significato delle lettere e delle parole: sicuramente non capita tutti i giorni di incontrare simili personaggi! Lunch time in Marree, l’ennesimo scorcio di vita in mezzo al nulla.
Nel pomeriggio abbiamo la fortuna di visitare una comunità aborigena. Una comunità aborigena che vive nel deserto, nelle condizioni climatiche più estreme, 300 persone che vivono in 25 case, 15 persone che dormono nella stessa stanza. Una scuola, un negozio di alimentari, un ufficio postale, una clinica medica. 300 persone e solamente 30 posti di lavoro. Pochi stracci sporchi che ricoprono la pelle nera, gli stessi, tutti i giorni e la pelle al posto della suola delle scarpe. Il minimo indispensabile per poter vivere, o meglio, sopravvivere. Questo è quanto i miei occhi vedono. Non so capire se questa gente possa essere felice così, con queste quattro righe che ho appena scritto, oppure no. Se ti chiedessero “scrivi in quattro righe cosa ti serve per essere felice o comunque per poter vivere in modo completo la tua vita”… Bè… Sfido chiunque nel riuscirci, anche me stessa. Ieri ne avrei scritte 100 forse, oggi credo me ne bastino molte meno grazie all’esperienza che sto vivendo, ma in ogni caso credo che quattro non basterebbero certamente. Per questa gente questa è la normalità, sono nati e cresciuti così e forse la loro felicità è qualcosa che noi non possiamo concepire. Ma un’ultima immagine fugace passando con il bus mi suggerisce che esiste qualcosa che ci accomuna: mamma e papà con le loro due piccole figlie, seduti per terra davanti casa loro, con due giocattoli tra le mani… Ecco, credo che questa felicità sia semplicemente universale.
Proseguiamo a ritmo di musica country e dopo altre 4-5 ore di viaggio arriviamo a William Creek, il paese (se così si può chiamare) del South Australia con il minor numero di abitanti, meno di 10 persone, pensate un po’! Ci sistemiamo nell’unico campeggio della metropoli: questa notte dormiremo direttamente sotto le stelle!
Prima di cena ci concediamo une birra e una partita a carambola nel pub più bizzarro che abbia mai visto: le pareti sono interamente ricoperte da bigliettini da visita, fotografie, documenti d’identità, biancheria intima, tesserini universitari, patenti (e chi più ne ha più ne metta!) tutti firmati e/o personalizzati dalle migliaia di fortunate anime che sono passate di qua.
Spaghetti surprise per cena: se non avete mai visto gli australiani cucinare la pasta… bè… beati voi! Ed evitate di farlo!! Solitamente buttano la pasta direttamente nell’acqua fredda e come se non bastasse spezzano più volte gli spaghetti… That’s a shame! In ogni caso come dice la mia mamma “quando si trova pronto è sempre tutto buono!”
Dormiamo direttamente per terra nei cosiddetti “swag”, una sottospecie di sacco a pelo ma con materassino incorporato… Non sembra poi così scomodo! Un cielo stellato come pochi ne ho visti nella mia vita e tanti pensieri che fanno da cornice: la mia famiglia, gli amici, i miei nonni che ogni giorni mi proteggono da lassù, il mio presente, il ringraziare non so chi per essere qua e per vivere ogni attimo così intensamente come non ho mai fatto prima d’ora, non avere bisogno di niente per essere felice e lasciare scendere due lacrime come segno di gratitudine… Non mi era mai capitato prima… Grazie Australia, grazie vita, grazie.

26_04_2009
Terzo giorno: destinazione Coober Pidy.
Dopo poche ore di viaggio arriviamo in questa cittadina che a confronto di quelle viste in precedenza sembra una metropoli! Un’altra curiosa differenza la caratterizza: case, pub, ristoranti e perfino la chiesa sono sottoterra. Si, avete capito bene! Per sopravvivere alle temperature estreme (il caldo estivo che supera i 50° di giorno e il freddo che scende sotto lo 0 di notte) la maggior parte della gente vive sottoterra, dove la temperatura è più o meno constante tutto l’anno (24° circa), sia di giorno che di notte. E questa notte anch’io proverò le brezza di dormire sottoterra… da viva!
Coober Pidy è famosa anche per essere la capitale australiana degli opali, ed infatti la cittadina è a tutti gli effetti un cantiere aperto.
La giornata trascorre velocemente: visita guidata al museo degli opali e successivamente ad un sito aborigeno poco lontano da Coober Pidy che regala alla mia vista un panorama mozzafiato. Una visuale sull’infinito caratterizzato da un complesso di promontori che la natura ha creato dopo centinaia di anni di lento e accurato lavoro.
Doccia bollente, pennichella e pizza party per concludere la giornata nel migliore dei modi. Domattina la sveglia suonerà alle 4.30 am… e potrò dire di aver dormito sottoterra nella mia vita terrena: soooo cool!

27_04_2009 e 28_04_2009
“It’s time to wake up. The time is 4.30!”. Suona la sveglia, il mio corpo mi suggerisce di girarmi dall’altra parte e continuare a dormire, ma la mia mente pensa “oggi finalmente potrò vedere l’Uluru!”… Ed ecco che magicamente sono già in piedi, pronta per ripartire nuovamente per un lungo, lungo viaggio: i km da percorrere oggi sono circa 800! Numerosi sono i break che ci concediamo, in tal modo la giornata passa relativamente in fretta. Tra un “game” e una “lesson” della nostra guida Trevor ecco che finalmente appare in lontananza l’attesissimo monolita… In effetti me lo ricordavo un po’ diverso… Per forza! Non è l’originale! Trevor ci ha teso un tranello dicendoci che quello davanti a noi era l’Uluru, ma in realtà era un altro monolita che gli assomiglia parecchio!
Finalmente poco prima del tramonto i miei occhi possono ammirare l’unico e originale simbolo dell’Australia. Rimango semplicemente con lo sguardo fisso, stupefatta. Il suo silenzio, il suo colore, la sua maestosità… Rimarrei ore e ore a guardarlo, ha qualcosa di magico che ti cattura lo sguardo e la mente e ti fa pensare, e pensare e pensare.
Doccia, cena e “bed time stories”. Buonanotte! Domani ci aspetta una luuuunga camminata.

La sveglia suona presto anche oggi. Mi alzo come sempre di buonissimo umore… Ci aspetta un imperdibile “sunrise” che colorerà l’Uluru di un rosso fuoco.
Come previsto lo spettacolo davanti ai miei occhi è a dir poco strepitoso: ogni minuto che passa i raggi del sole si fanno sempre più forti e si fanno spazio tra le nuvole che circondano l’Uluru con un magico silenzio. Il suo colore cambia in continuazione, e il suo aspetto imponente cattura la mia attenzione e il mio sguardo per lungo tempo.
Il programma della giornata prevede la camminata intorno alla base dell’Uluru di quasi 10 Km. Qualche avventuroso vorrebbe provare la scalata, ma per gli Aborigeni il monolita è assolutamente sacro e scalarlo vuol dire invadere i loro spazi, la loro religiosità. Credo sia giusto rispettare le loro regole, il loro territorio, la loro cultura, non posso credere come certe persone arrivino a pensare “chissenefrega” solamente per il fatto di essere orgogliosi della scalata e per il gusto di avere una fotografia da mostrare agli amici. Ignoranti, l’unica cosa che mi viene da dire. Riporto questa frase che credo riassuma al 100% ciò che voglio dire: “Il turista viene qua e riprende tutto con la sua macchina fotografica. Che cosa ottiene? Un’altra foto da portare a casa, magari di una parte di Uluru. Egli dovrebbe usare un’altra lente, capace di penetrare il soggetto delle sue istantanee. Allora egli non vedrebbe solo una grande roccia. Infatti riuscirebbe a scorgere lo spirito di Kuniya che ha continuato a vivere all’interno della roccia sin dal principio. A quel punto potrebbe persino buttar via la macchina fotografica”.
La camminata non è troppo faticosa, anche se il caldo è abbastanza opprimente.
Campaggiamo nell’area apposita, anche domattina ci aspetta un’altra lunga camminata tra le Olgas (Kata Tjuta), l’ennesimo luogo sacro per la cultura aborigena.


29_04_2009 e 30_04_2009
Gli ultimi due giorni di tour si rivelano semplicemente perfetti per la conclusione di questo fantastico tour.
Due lunghe camminate, il primo giorno tra le Olgas e il secondo nel King Canyon. I panorami sono come al solito mozzafiato: 36 cupole color rosso fuoco che profumano di storia aborigena e ripide e profonde pareti che caratterizzano il Canyon. Trevor con le sue precise conoscenze ci racconta altri spezzati sulla sacralità di questi posti per la cultura aborigena; gli aborigeni sembrano accettare i migliaia di turisti che visitano oggigiorno i loro luoghi, grazie anche alla collaborazione nata con il governo australiano. In ogni caso alcuni luoghi sono comunque “blindati” e non è permesso visitarli o scattare fotografie.
Ci dirigiamo stanchi ma soddisfatti verso Alice Springs, l’ultima tappa del nostro viaggio. Un cena tutti insieme per scambiarsi le solite e-mail e i soliti saluti di circostanza. Grazie Trevor e grazie Australia per aver arricchito la mia persona per l’ennesima volta.

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